venerdì 31 marzo 2017

PUTIN E LA FILOSOFIA

Massimo Bordin

NON SOLO I BRICS

Il B.R.I.C.S. è un acronimo di cui si parla sempre di più in economia, essendo un'associazione internazionale composta da cinque paesi tra le maggiori economie emergenti del mondo: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.
L’associazione si propone di costruire un sistema commerciale globale attraverso accordi bilaterali che non siano basati esclusivamente sul petrodollaro.
Il termine venne usato per la prima volta nel 2001 in un report della banca d'affari Goldman Sachs. Secondo la relazione degli analisti americani, Brasile, Russia, India e Cina domineranno l’economia mondiale nei prossimi decenni. Per Goldman Sachs, il Pil dei paesi Bric (all’epoca non venne considerato il Sudafrica) avrebbe raggiunto quello di Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia ed Italia entro il 2050.
I Paesi Brics, dopo il 2010, hanno aumentato la loro influenza dentro il Fondo Monetario Internazionale e poi si sono creati una loro struttura finanziaria autonoma (la New Development Bank). Gli Stati Uniti si sono trovati allora in una situazione economica difficile e per la quale il loro monopolio viene messo in discussione. Dopo l’affermazione politica di Vladimir Putin, in Russia questa difficoltà ha subito una forte accelerazione.
Prima di Putin, infatti, le economie di Cina, Russia, India e Brasile non rappresentavano un problema di concorrenza, anzi, stavano per diventare ottimi bacini di consumo dei prodotti americani. A livello politico, soprattutto, la Russia era ridotta al lumicino ed è per questo che si può affermare che per quanto riguarda la storia russa recente esiste un prima di Putin e un dopo Putin.
Una sola immagine rende bene l’idea della subordinazione dei russi agli americani durante gli anni ’90: quella del Presidente Boris Eltsin che si rotola sotto i tavoli ubriaco ripreso dalle telecamere. Una scena umiliante per tutto il popolo russo e sintesi di un’epoca, quella immediatamente successiva alla Caduta del Muro, con i russi sbigottiti, spaesati, acriticamente persuasi che i valori della ricchezza e del consumo fossero ormai gli unici possibili. In questa fase di interregno, prosperarono i nuovi russi, gli oligarchi che presero al balzo la fase di crisi e sfruttarono le enormi risorse minerarie della regione eurasiatica per trarne profitto personale.
Ma da dove uscivano questi russi ricchi e dediti al lusso che erano vissuti fino all’età matura in un Paese dove sembrava assai diffusa la povertà e bassissimo il tenore di vita delle popolazioni?
Gli oligarchi vengono così chiamati dall’opinione pubblica russa, che utilizza un termine caro alla filosofia greca e ad Aristotele in particolare, per il quale l’oligarchia è una forma di governo degenerata dell’aristocrazia, normalmente tradotta con l’espressione “governo di pochi”.
In Russia però, più che di un ristretto gruppo di politici, si tratta di uomini d'affari che si sono impadroniti delle maggiori risorse dell’ex Unione Sovietica durante le caotiche privatizzazioni portate avanti da Eltsin negli anni Novanta. Questi manager postcomunisti si sono avvalsi dei legami che avevano con la nomenklatura sovietica per fare incetta di Voucher, cioè dei titoli distribuiti a ogni cittadino russo per acquistare quote delle imprese statali russe in via di privatizzazione. In altri termini, grazie a risorse varie e soprattutto agli agganci con l’alta burocrazia russa, alcuni yuppies dell’est si sono impadroniti di società russe che durante il comunismo gestivano risorse petrolifere, gas e industrie pesanti. Come scrive lo storico italiano Sergio Romano, “divenuti proprietari, hanno accumulato rapidamente colossali fortune e protetto la loro nuova ricchezza creando o comperando due utili strumenti: le banche, indispensabili per manovrare il denaro, e i mezzi d' informazione, necessari per condizionare il potere politico e tenere a bada gli avversari”.
Il segretario esecutivo del Consiglio della Comunità degli Stati Indipendenti Boris Berezovskij, quando Putin divenne Primo ministro su indicazione di Eltsin nel 1999, era anche e soprattutto un uomo d'affari: trafficava con i ceceni, frequentava la famiglia presidenziale e la casa bianca russa e, per dirla con l'ex ambasciatore Sergio Romano, “elargiva generosi favori finanziari”.
Gli altri oligarchi - fra cui Roman Abramovic, Vladimir Gusinskij, Michail Chodorkovskij, Platon Lebedev, Leonid Nevzlin, Michail Gutseriyev – concentravano la loro attività nella gestione delle materie prime di cui la nazione è ricchissima, gas e petrolio soprattutto, condizionando la vita pubblica attraverso organi d'informazione di loro proprietà o sui quali esercitavano un forte ascendente.
Dopo il repulisti putiniano, per la maggior parte degli oligarchi russi la vita è decisamente cambiata: Berezovskij è morto suicida, a Londra; Gusinskij vive nel benessere, ma in Spagna, Nevzlin a Tel Aviv. Chodorkovskij e Lebedev hanno fatto anni di prigione, Gutseriyev ha trascorso diverso tempo in contumacia perché su di lui pendeva un mandato di arresto da parte della magistratura russa.
Non mancano i commentatori, in Occidente come in Russia, che hanno colto anche diversi limiti in questa operazione di pulizia. In Italia, ancora Romano sottolinea ad esempio che “l'operazione sarebbe stata encomiabile se Putin non avesse colpito i suoi nemici (in particolare Chodorkovskij), ma lasciato licenza di lavorare e prosperare a tutti coloro che accettavano di venire a patti con il Cremlino”. Da tutta questa spiacevole vicenda emerge con chiarezza che l'Urss, frettolosamente derubricata in Occidente a regno della miseria, aveva lasciato un tessuto industriale potente e strutturato, se non altro meritevole di essere saccheggiato da alcuni furbetti della vecchia e della nuova nomenklatura. Putin ha creato le condizioni perché alcuni di costoro finissero in grossi guai giudiziari (Chodorkovskij e Lebedev su tutti); altri se la sono cavata molto bene e ancora oggi godono delle risorse ottenute grazie ai vecchi privilegi.
Il forte consenso guadagnato da Putin presso l'opinione pubblica, tuttavia, dimostra come il leader di Russia Unita sia riuscito a mettere fine al caos che le bande di oligarchi ed i comitati d'affari erano riusciti a scatenare verso la metà degli anni Novanta. L'interregno che caratterizzò l'era tra Gorbaciov e Putin, infatti, somigliava più al Far West americano o alla Sicilia dei Corleonesi che ad un paese evoluto: pochi e ricchissimi uomini d'affari protetti da milizie private e guardie del corpo pronti a salvaguardare interessi privati a danno di quelli pubblici e ad eliminare anche fisicamente gli avversari.
Ciò che di rado si chiedono in Occidente è come Putin sia riuscito nell’impresa e quale sia la sua visione dell’economia russa. Da questo punto di vista, egli non è tanto diverso dai leader sovietici che lo hanno preceduto o da alcuni Zar illuminati, come Pietro Romanov, e con buona pace di chi al contrario vedeva in Putin un fautore del capitalismo selvaggio. Egli è convinto, più propriamente, che la Russia per caratteristiche geografiche e culturali vada trasformata e modernizzata attraverso una rivoluzione dall’alto e che ciò si potrà fare solo se la politica, e non il mercato, controllerà le immense risorse naturali del paese.
Se è vero che in Russia non c’è ancora una classe media paragonabile alla nostra, è parimenti sicuro che con Putin i ceti più poveri hanno visto un incremento notevole del loro tenore di vita. Anche l’occupazione è cresciuta grazie al controllo nazionale di gas e petrolio. In aggiunta a questi dati macroeconomici, la Federazione si è dotata di uno strumento – chiamato Fondo di Stabilizzazione – molto simile a quello creato negli anni scorsi da paesi scandinavi ricchi di materie prime, come la Norvegia. Il Fondo gode di accumuli periodici in valuta di riserva e funge un po’ come un’assicurazione per l’economia russa in grado di garantire che i periodi di contrazione siano meno pericolosi. Da qualche anno i sondaggi attribuiscono al presidente Putin un altissimo consenso popolare anche nei periodi di maggior tensione internazionale e di riduzione del Pil.
Con lo smantellamento del sistema oligarchico Putin ha iniziato un nuovo corso, smarcando il sistema capitalistico russo dal sistema finanziario internazionale che in gran parte dipende dalle élites americane, israeliane ed europee. In tal modo, Mosca non ha solo ridimensionato gli affari di queste élites, ma ha anche affermato un modello economico antiliberista, perché basato sul controllo da parte dello Stato delle produzioni maggiormente significative. In America ed in Europa, su questi specifici temi economici, vige un’ideologia completamente opposta a quella di Putin, perché le grandi società finanziarie, industriali e delle materie prime favoriscono e determinano il consenso della politica. Anzi, si può dire che la politica occidentale sia oggi essa stessa a disposizione di pochi gruppi economico-finanziari, e non viceversa, come ampiamente dimostrato dal lungo progetto di privatizzazione in atto in Europa dai tempi della Caduta del Muro di Berlino ad oggi. Comunicazioni e trasporti, armamenti e risorse idriche, riciclaggio dei rifiuti e idrocarburi: oramai in Europa ogni bene di pubblico interesse appartiene ad azionisti privati raggruppati in holding finanziarie internazionali il cui unico scopo è trarre profitti di breve-medio termine per un ristrettissimo numero di soggetti. In Russia no.
Risultano pertanto distratti, o in forte malafede, quegli analisti che considerano il modello economico russo identico a quello occidentale di oggi, dopo la morte del comunismo. Anche se l’economia russa si basa su grandi disparità di censo, su competizione e consumo, gli organismi politici che hanno espresso un Presidente come Putin conservano un grado di autonomia superiore al nostro.
A questa
differente impostazione in campo economico, che ricorda seppure in modo vago la socialdemocrazia norvegese, si deve aggiungere che la Russia, ben più dell’altro futuro concorrente al sistema atlantico, la Cina, possiede una capacità nucleare - e quindi bellica - identica se non superiore a quella occidentale. Sul numero di carri armati, aerei e uomini disponibili, cioè sulle armi convenzionali, gli studi non convergono, ma tutti concordano sulla capacità nucleare della Russia. Come ha sottolineato Putin stesso, “noi siamo l’unico paese, oltre l’America, a possedere la «triade nucleare», cioè a poter intervenire sulla terra, in aria e nell’oceano. E le nostre armi sono uguali alle loro sia per potenza che per numero, ed è proprio questa uguaglianza che decide i rapporti di forza anche a vantaggio della Russia”.
All’indomani della disgregazione dell’Urss, il potenziale bellico russo era ancora in grado di concorrere con quello americano, ma lo stesso non poteva dirsi del potenziale ideologico. Quando Boris Eltsin, già Sindaco di Mosca, divenne Presidente dello Stato Russo egli diede vita ad un governo appiattito sulle posizioni americane, sia in politica estera che in quella economica. Per quanto riguarda l’economia, come si è già detto, Eltsin ed il suo gruppo dirigente iniziarono una serie di privatizzazioni dei beni pubblici russi a favore di singoli uomini d’affari. Negli stati cintura della Russia, invece, si accettò la pratica della nascita di nuovi Stati autonomi da Mosca in nome di un vecchio principio caro a Woodrow Wilson fin dall’inizio del Novecento, quello dell’autodeterminazione dei popoli.
In base a questo principio, i popoli potevano decidere autonomamente di scindersi gli uni dagli altri sulla scorta di riferimenti culturali, linguistici, religiosi, territoriali. Se nel Novecento questo principio portò alla disgregazione degli imperi centrali dopo la Prima Guerra Mondiale, negli anni Novanta del secolo scorso, l’autodeterminazione dei popoli comportò la nascita di nuovi stati nell’Europa dell’Est, come Lituania, Estonia, Lettonia, Ucraina, ma anche Croazia, Slovenia, Bosnia.
Privata di alleati, la Russia di Eltsin si trovò in affanno anche sotto il profilo geopolitico e dovette affrontare grossi problemi interni di natura economica: il fallimento della shock therapy

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